Alessandro Zaccuri e Maria Laura Conte, in Expo, hanno partecipato all'incontro della Fondazione Oasis: «L'Isis raggiunge i giovani attraverso i social network»

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«Dobbiamo essere capaci di togliere i confini, e non di costruirne di nuovi, anche sui social network. I nuovi media devono aiutare a costruire comunità».

 

È una delle regole che contribuiscono a creare una mappa per un uso dei media, vecchi e nuovi, che sia consapevole e responsabile, secondo Alessandro Zaccuri, giornalista di Avvenire e docente dell’Università Cattolica. Una mappa che ha provato a disegnare nell’incontro che si è tenuto giovedì 25 giugno all’interno del sito Expo, al padiglione Samsung, in collaborazione con la Fondazione Oasis. Un workshop dedicato in particolare alla formazione di insegnanti ed educatori, perché siano in grado di accompagnare i più giovani a diventare lettori e utenti critici nella “civiltà delle reti”.

 

«Fino a qualche anno fa – ha spiegato Zaccuri nel suo intervento – eravamo convinti di stare davanti ai media, e che il nostro compito fosse di difenderci, evitando di esserne sommersi. E invece, soprattutto, con la rivoluzione social, ci siamo accorti di non essere sommersi, ma immersi nei media, e di contribuire noi stessi alla formazione di news».

 

Dalla diffusione di YouTube in poi, secondo Zaccuri, siamo diventati tutti potenziali e reali produttori di notizie e di contenuti. In questo contesto, gli educatori devono essere preparati ad affrontare e affiancare i ragazzi. Come? «Bisogna ricordarsi tre parole chiave. Competenza: è necessario essere sempre aggiornati. Contenuti: perché spesso c’è competenza tecnica sull’uso dei social network, ma non ci può essere solo quella, devono esserci contenuti di qualità. Infine, comunità: i social network devono contribuire a costruire comunità».

 

E sui contenuti in rete, una stoccata alla realtà attuale: «Chi produce un contenuto, anche piccolo, deve essere retribuiti. I contenuti valgono. L’educatore deve educare i ragazzi ad essere consapevoli di avere il diritto che il loro lavoro sia pagato».

 

C’è chi, coi social media, ha saputo molto bene costruire senso di appartenenza e comunità. Persino con risvolti molto negativi. «C’è chi raggiunge i giovani attraverso i social network, e utilizza i media in modo da far invidia a Think Tank americani. Sto parlando dell’Isis – ad analizzare il caso, in modo molto accurato, la direttrice della Fondazione Oasis Maria Laura Conte -. L’Isis non ha un sito ufficiale, che sarebbe facile da controllare, ma diffonde materiale attraverso altre piattaforme, YouTube, Twitter e i siti di condivisione di file hanno permesso una diffusione massiccia di contenuti di tutti i tipi».

 

«Dalle riviste patinate come Dabiq, scritte in inglese, diffuse attraverso piattaforme di file sharing e raggiungendo un’audience potenzialmente illimitata, ai video trailer e ai videogiochi che ricalcano perfettamente altri molto famosi, come Grand Theft Auto, trasformati in versione jihadista – sono molti gli esempi enumerati da Conte – e da tutti questi messaggi si capisce che l’obiettivo sono i giovani occidentali».

 

Non poveri, non con basso livello di scolarità o educazione, ma chi parte per seguire l’Isis è spesso ben inserito, arriva da una famiglia di classe media, borghese o anche della buona società.

 

Come è il caso di Amelie, ragazza parigina di famiglia altolocata, studentessa di infermieristica, che sparisce improvvisamente dalla famiglia per andare a morire in Siria. O come Amedy Coulibay, uno degli attentatori dei giorni di Charlie Hebdo, considerato ben inserito, bravo studente, buon lavoratore.

 

«Lo capiamo dall’uso della lingua inglese, in cui si introducono però parole in arabo per iniziare a familiarizzare questi ragazzi. Lo capiamo da alcune espressioni quasi hollywoodiane, che rimandano a un immaginario occidentale».

 

L’uso dei social media da parte dell’Isis sicuramente coinvolge, chiede di impegnarsi in prima persona, non lascia fruitori passivi ma coinvolge, orienta ideologicamente anche divertendo. Il problema non è la comunicazione ma, ovviamente, l’obiettivo.